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    Titolo del film: IL BAMBINO CON IL PIGIAMA A RIGHE (The Boy in the Striped Pyjamas)

Regia: Mark Herman

Soggetto: Tratto dal romanzo omonimo di John Boyne

Sceneggiatura: Mark Herman

Fotografia: Benoît Delhomme

Musica: James Horner

Interpreti: Asa Butterfield (Bruno), Jack Scanlon (Shmuel), Amber Beattie (Gretel), David Thewlis (Padre), Vera Farmiga (Madre), Richard Johnson (Nonno), Sheila Hancock (Nonna), Rupert Friend (Tenente Kotler), David Hayman (Pavel), Jim Norton (Herr Liszt), Cara Horgan (Maria)

Genere, durata e nazionalità: Drammatico, 100', Gran Bretagna

   
         
    Rassegna Stampa    
         
       Francesco Lomuscio - da www.filmup.com

   Dall’inglese Mark Herman, regista di commedie del calibro di "Tutta colpa del fattorino" (1992) e "Grazie, signora Thatcher" (1996), mai ci saremmo aspettati la trasposizione su celluloide de "Il bambino con il pigiama a righe", premiato romanzo scritto dall’irlandese John Boyne che, ambientato negli Anni Quaranta, tenta di ribadire in maniera tutt’altro che allegra quanto un valore come l’amicizia possa unire ciò che le barriere dividono.
   Con le fattezze dell’ottimo Asa Butterfield ("Son of Rambow"), ne è infatti protagonista il bambino di otto anni Bruno, figlio di un ufficiale nazista da poco trasferitosi con la famiglia in una casa di campagna fuori Berlino, il quale fa conoscenza con il coetaneo ebreo Shmuel, interpretato dall’esordiente su grande schermo Jack Scanlon, perennemente in pigiama a righe e confinato al di là di un recinto in filo spinato la cui utilità non è neppure minimamente immaginata dal ragazzo tedesco.
   Quindi, accompagnata dalle fondamentali musiche del premio Oscar James Horner ("Titanic"), una favola (molto nera) che cerca di offrire una prospettiva unica sugli effetti del pregiudizio e della violenza nei confronti degli innocenti, apparendo quasi come una versione seriosa de "La vita è bella" (1997) di Roberto Benigni, soprattutto se teniamo in considerazione il fatto che tutto viene raccontato attraverso la visione di Bruno, talmente ingenua da spingerlo a pensare che il numeretto inciso sulla maglietta occorra a Shmuel per partecipare ad un gioco con gli altri amici all’interno della rete.
   Mentre la bella fotografia del francese Benoît Delhomme ("Ognuno cerca il suo gatto") contribuisce ad arricchire di ombre i volti dei lodevoli componenti del cast, tra i quali troviamo Vera Farmiga ("The diparted-Il bene e il male") e David Thewlis ("Harry Potter e l’Ordine della fenice") nei panni dei genitori del protagonista, oltre al promettente Rupert Friend ("Orgoglio e pregiudizio") in quelli del tenente Kotler.
   Fino ad una parte finale che, grazie in particolar modo al montaggio del veterano Michael Ellis ("La croce di ferro"), risulta talmente tesa e coinvolgente da non sfigurare affatto dinanzi al miglior prodotto horror, portando l’opera di Herman direttamente nel cuore del commosso spettatore, spinto non solo a riflettere sulle barbarie dell’Olocausto, ma anche e soprattutto su come l’innocenza infantile finisca spesso per essere vittima della furia incosciente (???) di quelli che dovrebbero essere i maturi adulti intelligenti.

   
         
       Roberto Nepoti - da La Repubblica, 19 dicembre 2008

   È coraggiosa, e molto insolita, la scelta della Disney di far uscire a Natale un film come Il bambino con il pigiama a righe. Nei titoli saltano agli occhi alcuni nomi coinvolti nella saga di Harry Potter: David Heyman, che ne ha prodotto tutti gli episodi, e l' attore David Thewlis, che vi ha interpretato il personaggio del professor Lupin; eppure, come film destinato ai bambini, questo è tutto fuorché spensierato e consolatorio. Il soggetto riguarda la Shoah; con alcune situazioni e un esito, però, da far sembrare "La vita è bella" di Benigni una commedia ottimistica. All' origine c' è un best-seller del giovane scrittore irlandese John Boyne (e tutto il film ha un' impronta cosmopolita: attori britannici e americani che recitano in inglese, location ricostruire in Ungheria...) con al centro un ragazzino di otto anni, Bruno, figlio di un ufficiale nazista. Osservando le cose "ad altezza di bambino", veniamo introdotti nella vicenda. Bruno apprende che, assieme alla famiglia, dovrà trasferirsi da Berlino in una località di campagna, lasciando gli amati compagni di giochi. Confinato in una villa presidiata da militari, Bruno si annoia; finché non scopre l' esistenza, nei paraggi, di quella che lui ritiene una fattoria, popolata da strana gente con indosso pigiami a righe; in realtà, un campo di sterminio. Passando sopra qualche assurdità (la prossimità al campo del villone), il racconto si fa coinvolgente; soprattutto quando il piccolo protagonista fa conoscenza con Shmuel, un coetaneo ebreo "in pigiama" recluso dal filo spinato. I due cominciano a giocare e, pur nell' orrore della situazione, riescono ad affabulare la realtà per renderla meno dura; come solo i bambini sono capaci di fare. Se il ragazzino ebreo nasconde a se stesso una parte della verità, Bruno non riesce neppure a concepirla: tutto per lui diventa uno strano gioco; estremamente pericoloso, quando decide di entrare nel lager con un percorso opposto a quello dei detenuti: intrufolandosi sotto la recinzione. Benché il film sia articolato in un progressivo emergere in "campo" (visivo) di realtà che la famiglia vuole celargli, l' ingenuità e l' innocenza di Bruno (Asa Butterfield, piccolo attore inglese dagli occhi azzurri che gli mangiano il viso) non appaiono mai eccessive o assurde; e il regista-sceneggiatore Mark Herman ha l' accortezza di non pigiare sul pedale del patetico davanti a situazioni così intrinsecamente tragiche. I personaggi adulti risultano un po' schematici: più quelli maschili (il giovane ufficiale, il padre e il nonno di Bruno), tutti fanaticamente nazi, che i "caratteri" femminili (la nonna antinazista e la madre, che prima accetta poi capisce la vera entità dello sterminio). Gli "sguardi" più importanti sono il suo e, assai più, quello di Bruno. Il che tende a produrre identificazione nello spettatore minorenne; in un film che non è affatto da sconsigliare ai bambini (tutt' altro), ma la cui visione dovrebbe essere introdotta e accompagnata dall' adeguato commento di un adulto.

   
         
       Boris Sollazzo - Da Liberazione, 19 dicembre 2008

   Dopo più di 60 anni dal più grande e sistematico genocidio compiuto nell'età moderna, con sistemi industriali ed economia di scala, è difficile dire qualcosa di nuovo sull'Olocausto. Lo avevamo notato con Il falsario , bel noir ambientato in un campo di concentramento, e in fondo ce lo aveva insegnato già Primo Levi con Se questo è un uomo : per entrare nelle menti e nella pancia delle persone serve una storia, meglio se di genere, pur raccontando vicende vere e accadute. E così Mark Herman ha raccolto la lezione di questo rinnovamento, di fatto attuatosi con il Train de vie di Radu Milheanu a cui seguì La vita è bella di Benigni, e ha portato sullo schermo il lager come non l'avevamo mai visto. Ad altezza di bambino - e infatti non vediamo tetti e ciminiere, ma solo fumo da lontano e terra e uniformi da vicino -, quella del figlio del comandante tedesco che sovrintende alla struttura di sterminio e del piccolo di otto anni con cui fa amicizia, al di là di una rete elettrificata e del filo spinato. Diventano amici e la tragedia più grande della Storia trova una dolcezza inenarrabile nel loro giocare a dama, nel sorridere del bimbo tedesco ingenuo che approfitta del fatto che il compagno di giochi non può manovrare le pedine per tentare di ingannarlo. Si sorride con il cuore stretto, perché c'è troppo peso in quegli occhi innocenti. Asa Butterfield cerca risposte sul perché, nella fattoria vicina alla sua nuova casa, tutti portino questo pigiama a righe così poco elegante.
Zac Mattoon O'Brien ritrova la gioia del gioco, ma uno schiaffo e il "tradimento" (naturale) dell'amico di fronte all'adulto lo riprecipita nel baratro. Il bambino con il pigiama a righe è un gioiello così come lo era il bestseller (in Italia edito da Fabbri) di John Boyne, qui anche sceneggiatore, da cui è tratto. Lo stile, visivo e narrativo, è quello della fiaba d'infanzia d'avventura, la ricerca del piccolo antieroe del mistero da esplorare e risolvere e tutto è vissuto tra la sua innocenza e la colpa che macchia gli adulti, dal padre militare alla madre più ignava che ignara (una splendida e bravissima Vera Farmiga). Delicatezza e sensibilità lo rendono visibile a tutti - con una scelta di grande potenza espressiva le violenze rimangono fuori campo, la macchina da presa si ferma un muro, una porta prima - e non indulgono, però, a una catarsi consolatoria. Con l'onestà intellettuale che solo Walt Disney aveva (chi di noi ancora non piange per la mamma di Bambi?) questa favola nera tira le fila della Storia e delle storie, lasciando solo con la rabbia e l'impotenza lo spettatore, di fronte all'ultima immagine dell'ultima sequenza. Provate a rialzarvi o a parlare dopo i titoli di coda. Semplicemente, non ce la farete. Da far vedere ai vostri figli, ogni Natale. Per non dimenticare.

   
         
       Francesco Alò - Da Il Messaggero, 19 dicembre 2008

   La vita non è bella. E' il sospetto odioso che si insinua nella testa del piccolo Bruno (Asa Butterfielde), un bambino tedesco che incontra ogni giorno Shmuel, un altro ragazzino della sua età che veste un pigiama a righe. Come tutti quegli strani signori che lui vede dalla finestra della fattoria dove si è trasferito con mamma e papà. Tra lui e loro, un alto filo spinato. Chissà perché. Bruno ha capito poco di quel repentino trasferimento da Berlino. Gli è sfuggito il senso del nuovo incarico del padre. Ciò che lo turba di più, comunque, è il ricordo dello sdegno della nonna nei confronti di quella missione in campagna. Perché tanta tensione in famiglia? Presto tutte le sue domande avranno delle risposte. Orribili. Il bambino con il pigiama a righe di Mark Harman, tratto dal best-seller firmato John Boyne, affronta il tema dell'olocausto dal punto di vista di un bambino di otto anni. E' impressionante vedere Bruno viaggiare dall'innocente noncuranza (non vuole lasciare Berlino per non perdere gli amici), allo stupore quasi divertito, fino al senso di colpa lancinante. Accanto a lui si materializzerà mano a mano la presenza di una madre (Vera Farmiga) altrettanto ignara di ciò che accade in quella fattoria. Mai ricattatorio e mai banale, il film al massimo è leggermente inverosimile quando esagera negli incontri tra Bruno e Schmuel al filo spinato. Strano che nessuna sentinella se ne accorga. A parte ciò, la prova del piccolo Asa Butterfielde della grande Vera Farmiga sono indimenticabili. Come la tragedia che leggiamo nei loro occhi.

   
         
       Marzia Gandolfi - da www.mymovies.it

   Berlino, anni Quaranta. Bruno è un bambino di otto anni con larghi occhi chiari e una passione sconfinata per l'avventura, che divora nei suoi romanzi e condivide coi compagni di scuola. Il padre di Bruno, ufficiale nazista, viene promosso e trasferito con la famiglia in campagna. La nuova residenza è ubicata a poca distanza da un campo di concentramento in cui si pratica l'eliminazione sistematica degli ebrei. Bruno, costretto ad una noiosa e solitaria cattività dentro il giardino della villa, trova una via di fuga per esplorare il territorio. Oltre il bosco e al di là di una barriera di filo spinato elettrificato incontra Shmuel, un bambino ebreo affamato di cibo e di affetto. Sfidando l'autorità materna e l'odio insensato indotto dal padre e dal suo tutore, Bruno intenderà (soltanto) il suo cuore e supererà le recinzioni razziali.
   La drammaticità della Shoah, di un inferno voluto dagli uomini per gli uomini, è inarrivabile e di fatto non rappresentabile ma questo non ha impedito al cinema di provare e riprovare a misurarsi con quella tragedia. L'approccio cinematografico di Mark Herman, regista e sceneggiatore, è diretto e il punto di vista assunto è quello di un bambino, figlio di un gerarca nazista, la cui innocenza (davanti all'orrore) trova corrispondenza soltanto in Shmuel, coetaneo internato all'inferno. A differenza di La vita è bella e di Train de vie, Il bambino con il pigiama a righe non è una favola dove ognuno ha un proprio e preciso ruolo, al contrario nel film di Herman i due universi, quello del Bene e quello del Male, si lambiscono fino a confondersi e a sconvolgersi. Nel Bambino col pigiama a righe è l'inadeguatezza e la debolezza degli adulti, anche di quelli buoni, a obbligare i bambini a prendere in mano il proprio destino e a determinarlo. I padri e le madri non fanno “magie” come il Guido Orefice di Benigni e il Male che li circonda finisce per inghiottire i loro figli e renderli all'improvviso consapevoli. Il regista inglese è abile a evitare gli stereotipi della storia “cattiva” e della contrapposizione tra infanzia idealizzata e abiezioni del mondo adulto, analizzando la durezza di un'epoca (la Germania nazionalsocialista) e di un'età (l'infanzia).
   Muovendosi tra trappole d'apparenza ed eludendo clichè, sentimentalismi e scene madri, Herman mette in scena le ingiustizie e i rapporti di forza che si definiscono già nell'età più verde. Attraverso il minimalismo di episodi quotidiani, immersi nella severità dei colori freddi, Il bambino col pigiama a righe svolge la memoria, rivisitandola con soluzioni e libertà che rendono la storia intollerabile e lancinante. Per questa ragione, l'autore “chiude la porta” sulla camera a gas, interponendo fra gli spettatori e il volto della Medusa la pietas di un narrare artistico che consenta di guardarla senza soccombere impietriti, atterriti. Tratto dal romanzo omonimo dell'irlandese John Boyne, Il bambino con il pigiama a righe è un film evocativo di un'epoca nera e tragica, rivista attraverso la psicologia di un'amicizia infantile e di una (pre)matura scelta di campo, complicate da una realtà storica di discriminazioni e di selezioni razziali. Immagini che richiamano per tutti la necessità di frequentare (sempre) la Memoria e di non considerare mai risarcito il debito con il nostro passato.

   
         
       Gaetano Vallini, 'L'Osservatore Romano', 17 dicembre 2008

   Papà non è un orribile mostro, non è vero? È un brav'uomo. Però comanda un posto orribile". Il dubbio che assale il piccolo Bruno, otto anni, figlio di un ufficiale nazista inviato a comandare un campo di sterminio, è il filo conduttore del film Il bambino con il pigiama a righe, dal 19 dicembre nelle sale italiane. È il dubbio del non detto, del sottinteso, di una realtà in cui ciò che è mendacemente taciuto viene visto di riflesso attraverso lo sguardo di un'innocenza che si scopre tradita. Ma quello diretto da Mark Herman, che lo ha tratto dall'omonimo romanzo di John Boyne, è soprattutto un film sull'amicizia: quella che lega Bruno a un suo coetaneo, Shmuel, che si trova dall'altra parte del filo spinato, segnato dal destino terribile del suo popolo, ma anch'egli in parte ignaro degli eventi che lo coinvolgono. (...) Detto questo, nel film - prodotto dalla Miramax e distribuito dalla Disney - ci sono diverse incongruenze, sia dal punto di vista della ricostruzione storica - che possono essere valutate come irrilevanti visto l'intento non documentaristico - sia, e soprattutto, nella natura dei personaggi. (...) Ciononostante, il film ci mostra un punto di vista inconsueto - non quello di una vittima della Shoah ma di un bambino tedesco - e centra in qualche modo il bersaglio: riuscire a dare il senso del conflitto interiore del piccolo Bruno, vittima anch'egli, sia pure in modo diverso, stretto tra quell'amicizia e i comportamenti imposti dalla famiglia ("Noi non dovremmo essere amici, tu e io. Lo sapevi?", dice a un certo punto a Shmuel). Con tutti i limiti della sceneggiatura, la vicenda può essere letta come il paradigma di quella "banalità del male" definito da Hannah Arendt, secondo il quale anche persone comuni possono venire sopraffatte dalla barbarie in nome di un'obbedienza cieca a un'autorità che non viene mai posta in discussione. La sospensione del giudizio morale, ovvero l'assenza di consapevolezza della gravità della colpa, è la disarmante dimostrazione di quella mediocrità intellettuale a essa sottesa che rende anche uomini normali, cioè né sadici né perversi, capaci di azioni mostruose. Cinematograficamente non siamo certo ai livelli narrativi e poetici di "La vita è bella" di Roberto Benigni, ma non mancano punti di contatto. Nel film vincitore dell'Oscar s'impone lo sforzo di un padre per difendere il figlio dal vortice di orrore nel quale sono stati precipitati. Lì la menzogna è il meccanismo di difesa scelto per preservare l'innocenza di una ignara vittima. In "Il bambino con il pigiama a righe" è il modo usato dagli adulti per difendere prima di tutto se stessi dal senso di colpa.

   
         
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