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    Titolo del film: SI PUO' FARE (Si può fare)

Regia: Giulio Manfredonia

Soggetto: Fabio Bonifacci

Sceneggiatura: Fabio Bonifacci e Guido Manfredonia

Fotografia: Roberto Forza

Interpreti: Claudio Bisio (Nello), Anita Caprioli (Sara), Andrea Bosca (Gigio), Giovanni Calcagno (Luca), Giuseppe Battiston (Dottor Federico Furlan), Giorgio Colangeli (Dottor Del Vecchio), Maria Rosaria Russo (Caterina), Michele De Virgilio (Nicky), Carlo Giuseppe Gabardini (Goffredo), Andrea Gattinoni (Roby), Natascia Macchiniz (Luisa), Rosa Pianeta (Enrica), Daniela Piperno (Miriam), Franco Pistoni (Ossi), Pietro Ragusa (Fabio), Franco Ravera (Carlo), Bebo Storti (Padella), Ariella Reggio (Madre di Gigio), Daniele Ferretti (Enzo), Tony D'Agostino (Scorbutico), Giulia Steigerwalt (Chiara)

Genere, durata e nazionalità: Commedia, 111', Italia

   
         
    Trama:

   Nello, un imprenditore milanese che ha perso la propria posizione, si ritrova a dirigere una cooperativa di ex pazienti di ospedali psichiatrici, dopo l'entrata in vigore della legge Basaglia. Credendo fortemente nella dignità del lavoro, Nello spinge ogni socio della cooperativa a imparare un mestiere per sottrarsi alle elemosine dell'assistenza, inventando per ciascuno un ruolo incredibilmente adatto alle sue capacità ma finendo per scontrarsi con inevitabili quanto umanissime e tragicomiche contraddizioni.

   
         
    Rassegna Stampa    
         
       Claudio Carabba - Corriere della Sera Magazine, 20 novembre 2008

   Matti da slegare, come ai tempi in cui l'utopia era al potere e qualcuno volava sul nido del cuculo. Qui si torna all'Italia anni 80 quando la legge Basaglia, con i suoi meriti e i suoi squilibri, era stata da poco approvata. Il sogno di una libera cooperativa di malati guidati da un sindacalista dimesso (Bisio) forse si realizzano. La favola è un po' troppo lieta, ma carina.

   
         
       Roberto Escobar - Il Sole-24 Ore, 13 novembre 2008

   «Siamo matti, non siamo scemi», dice un "folle" di Si può fare (Italia, 2008, 111'). La battuta è vecchia, forse anche antica, ma non è citata a sproposito. Non sono per niente sprovveduti, i molti protagonisti della commedia girata da Giulio Manfredonia e da lui scritta con Fabio Bonifacci. Non lo sono nonostante gli anni passati in manicomio, nonostante le dosi massicce di calmanti, nonostante l'esclusione " istituzionalizzata" dalla vita.
Siamo nei primi anni 80, per la precisione nel 1983. La legge 180 è in vigore da 5 anni. Da 3 è morto Franco Basaglia, suo ispiratore tenace e coraggioso. In un ex manicomio nei pressi di Milano è stata costituita la Cooperativa di lavoro detta appunto 180. I soci sono i pazienti che nessun parente ha potuto o voluto riprendersi in casa.Indicato da un'organizzazione sindacale, a dirigerla arriva Nello (Claudio Bisio), convinto che il mercato non sia un luogo di perdizione, e insieme però certo che le sue leggi non siano assolute, e neppure le sole cui convenga attenersi.
Per la prima ragione, Nello non può più fare il suo mestiere di sindaca-lista: sei troppo moderno, gli dicono i suoi dirigenti, che non a caso lo spediscono fra i matti. Per la seconda e opposta ragione, invece, è un disadattato e un perdente, in quegli anni rampanti e sempre più orgogliosamente reaganiani. Nella "Milano da bere" sembra non esserci posto per idealisti e illusi. Lo sa bene il suo antico amico e compagno Padellari, detto Padella (Bebo Storti). Non molti anni prima era più idealista e più "puro"di lui,l'ottimo Padella. Ora invece, yuppie orgoglioso
e felice, è nel giro della moda, e ci sta del tutto a suo agio. Insomma, a confronto di quel che gli sta intorno, è un folle anche lui, povero Nello. Lo è tanto, che appena messo piede in cooperativa – ossia, in uno stanzone del manicomio –, si rivolge ai "soci" chiamandoli ognuno signore o signora. Non contento, decide di provare a fare quel che la ragione sociale suggerisce: guadagnarsi sul mercato commesse e appalti, e mettersi al lavoro.
Se Si può fare non fosse raccontato come una commedia lieve e seria insieme, ora si potrebbero ricordare le parole di Basaglia: «Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine, perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto della ma-lattia e del ritmo dell'internamento». E poi si dovrebbe aggiungere quanto la sua legge sia stata osteggiata e criticata. La malattia mentale non si può abrogare con una norma giuridica, dice appunto nel film il professor Del Vecchio (Giorgio Colangeli), riassumendole tutte, quelle opposizioni e critiche. Ma la sceneggiatura e la regia scelgono un'altra dimensione narrativa, un altro stile. In un certo senso, il film di Manfredonia e Bonifacci non è solo una commedia, ma addirittura una favola. O meglio, lo sarebbe se non raccontasse, molto liberamente, storie vere e fatti accaduti. Quello che nella finzione cinematografica Nello tenta e realizza con i suoi matti, fu davvero tentato e realizzatoall'inizio degli anni 80. Davvero qualche idealista, anzi molti idealisti scelsero il rischio del mercato, per recuperare alla vita gli internati psichiatrici. E davvero lo fecero convinti che la solidarietà fosse un valore, almeno quanto l'impresa e la concorrenza.
Ma torniamo alla commedia e alla favola. La prima difficoltà che Nello deve affrontare e vincere è la dipendenza dei " matti" dal manicomio. Deve aiutarli a rifiutarne l'assistenza, per così dire: quella chimica e farmacologia, ma anche quella "istituzionale". Insomma, deve riabituarli al rischio della libertà. Allo scopo, e forse ricordando vecchie abitudini assembleari, li coinvolge direttamente nella discussione e nella decisione. Cosa devono farne, della loro Cooperativa di lavoro? Come devono dividersi ruoli e compiti? Le risposte sono varie, e ognuna segnata da una follia molto saggia. Valga per tutte quella relativa alla scelta del Presidente. Tra i candidati c'è Roby (Andrea Gattinoni), autistico e ostinatamente silenzioso. Non ha mai fatto niente, e non sa far niente, dicono gli altri. Ed è proprio questa circostanza a risultare decisiva. Il curriculum è perfetto per il ruolo, decide Nello, e la nomina è cosa fatta. Essendo matti ma non scemi, i soci non hanno niente da eccepire.
Molto ancora accade nel film, spesso segnato dalla leggerezza del sorriso e talvolta appesantito dal lutto e dalla sconfitta. Ma tutto è sempre raccontato – e per fortuna anche recitato – con la simpatia e con il rispetto che vengono naturali a chi sappia che «si può fare», o che almeno lo speri.

   
         
   

   Maurizio Porro - Il Corriere della Sera, 7 novembre 2008

   La simpatia e la buona fede non sono categorie critiche, ma questo film di Giulio Manfredonia ne è pieno anche se la sua polemica e i caratteri sono, come mostra la data, tipicamente anni 80. Storia di un sindacalista che nella Milano da bere s' occupa di un gruppo di ex ospiti di un manicomio usciti con la legge Basaglia e coltiva in loro il libero arbitrio, il plus valore e la libera creazione del parquet. E' bello il modo con cui una storia vera viene trattata nei modi di una tragicommedia umana che ricorda da vicino il Cuculo ma non si compiace della psicanalisi e si diverte in modo discreto con un pò di ottimismo e folclorismo. Intitolato come lo slogan di Veltroni, il film ha un compatto gruppo di attori in testa ai quali sta Claudio Bisio, alla sua miglior prova di cinema.

   
         
       Roberta Ronconi - Liberazione, 31 ottobre 2008

   E' arrivato in sordina, nessuno ne sapeva nulla. Questo Festival di Roma è veramente prodigo di sorprese, suo malgrado. Tanta cagnara sul cinema italiano, titoloni di giornali sui film di Maria Sole Tognazzi e Michele Soavi e poi la sorpresa vera arriva all'ultimo, zitta zitta. E fa bum. Stiamo parlando del fuori concorso (ma perché?) Si può fare di Giulio Manfredonia. Scritto e sceneggiato da Fabio Bonifacci, con passo un po' favolistico un po' da fiction prima-serata Rai (magari!!), racconta di un piccolo esperimento post-basagliano nella periferia milanese.
Nello (Claudio Bisio), sindacalista fantasioso, dopo essere stato allontanato dal sindacato ufficiale, decide l'avventura in una cooperativa di ex malati mentali, appena dimessi dalle istituzioni grazie alla legge Basaglia. Non vuole fare il rivoluzionario, Nello, semplicemente fidarsi del suo intuito che gli dice che ogni uomo o donna, più o meno normale, ha un suo talento e può "metterlo" sul mercato. Un'idea vincente che porterà il gruppetto di ex-matti rincoglioniti dai farmaci a diventare una apprezzata cooperativa di parquettisti.
L'aria è quella da Qualcuno volò sul nido del cuculo , fra tragedia delle anime e commedia della vita. Ma la scommessa, nel suo piccolo, è più alta. Il mondo dei "normali" e quello dei "malati", nel film di Manfredonia (lo stesso del sorprendente Se fossi in te ) cammina sulla stessa linea, sottilissima, di demarcazione, continuamente attraversata dall'uno e dall'altro fronte. Con eccesso di rigore, Manfredonia sceglie di affidare tutte le parti ad attori professionisti (bravissimi tutti) con i quali prova per mesi, lasciandosi alle spalle qualsiasi tentazione di mix vero-falso («non mi sembrava giusto su nessun piano chiedere ad una persona di mettere in scena la sua propria difficoltà di vivere. E poi il cinema è fatto di recitazione, di finzione. E questo ho voluto fare, cinema») e mantiene un equilibrio di verosimiglianza mai scontata per quasi l'intera pellicola (alcuni momenti di caduta ci sono, ma sopraffatti dal resto). Se il risultato filmico è un po' scarso (un po' tendente al televisivo), ottimale invece quello della scrittura e dell'interpretazione. I "sani" Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, fanno con garbo da spalle alla vera compagnia di teatranti, quella dei "malati" appunto, senza avere mai la tentazione di rubare loro la scena.
A guardare Si può fare si piange molto, per commozione, per partecipazione. In alcuni momenti, sembra di toccare la vera poesia (i "malati" che ce l'hanno fatta che accolgono nella cooperativa i "malati" ancora sofferenti), smorzata dallo sguardo quasi pudico del regista.
Si può fare parla di malattia mentale, sì, ma ha un sottotesto ancora più affascinante. Quello che ci ricorda che sognare è possibile, che l'utopia è realizzabile. Magari proprio a partire da un piccolo gruppo di persone che ci provano. Che il tutto poi tutto sia tratto da eventi veri (dalla storia della cooperativa Noncello di Pordenone) è la rivelazione finale che trasforma la favola in dimenticata realtà. Vedere un film così in una prima serata su Raiuno (magari al posto di qualche pacco o di qualche Vespa) è parte della nostra personale utopia.

   
         
       Paolo D'Agostini - La Repubblica, 31 ottobre 2008

   Si intitola Si può fare il "caso" del festival romano edizione numero tre. Sicuramente il caso italiano, accolto da molti applausi, per quanto in compagnia eccellente (Vicari) o molto buona (Winspeare). Incomprensibilmente escluso dal concorso che sarebbe stata una mano santa per la bravura di tutti i suoi attori e da oggi nelle sale. Andate a vederlo: si pensa, ci si commuove, ci si diverte. Quello che deve fare una bella commedia. Si può fare è una favola, con i suoi stereotipi. Ma non lo erano anche Full Monty e Grazie signora Thatcher e Billy Elliott? Non lo era anche Qualcuno volò sul nido del cuculo, che di Si può fare è il faro? Claudio Bisio, nella Milano di inizio anni Ottanta, è un sindacalista. Crede nella solidarietà ma anche nella responsabilità e nell' iniziativa. Va a finire in una cooperativa di freschi ex degenti manicomiali: è da poco entrata in vigore la Legge 180 nota con il nome del suo ispiratore, lo psichiatra veneziano Franco Basaglia (13 maggio 1978). Ma la cooperativa è tuttora dominata dalla supervisione di uno psichiatra di vecchia scuola (Giorgio Colangeli) che crede nei farmaci e non nell' emancipazione del lavoro. Nello non sa niente di psichiatria ma si lascia guidare dall' istinto e da una semplice idea: «quello che fa stare bene me farà stare meglio anche loro», e con tutte le difficoltà trasforma i picchiatelli in richiestissimi parquettisti: infatti il disastro che combinano al primo lavoro viene scambiato per originale creatività. E così avanti fra cadute, crisi, fallimenti, ritorno indietro. Giuseppe Battiston è il giovane psichiatra basagliano che affianca Nello, Anita Caprioli è la fidanzata di Nello in bilico tra adesione al sogno di lui e inseguimento del successo nella Milano della moda. Il regista è Giulio Manfredonia, lo sceneggiatore Fabio Bonifacci, fotografia, costumi, montaggio, musica, tutto merita un elogio. Ma soprattutto il gruppone di attori non noti che danno al film la sua ossatura. Non è invenzione. Lo sceneggiatore lesse molti anni fa un articolo che raccontava l' esperienza di un sindacalista e di una cooperativa in provincia di Pordenone. Non una fiaba, non un' utopia ma la prova che, se si vuole, «si può fare».

   
         
       Boris Sollazzo - DNews, 31 ottobre 2008

   Si può fare, in verità, non se l'è inventato lui, è "copyright" di quel Giorgetti che negli anni '80 aprì una cooperativa di malati mentali a Pordenone. Una storia di riscatto sociale stupenda, una solida realtà fatta di numeri e successi. Terapeutici ed economici. Bonifacci, ottimo sceneggiatore, ha preso la macrostoria da un articolo di giornale e ci ha costruito una fiaba che più vera non si può. Giulio Manfredonia- i suoi Se fossi in te e È già ieri son piccoli gioielli - ci ha creduto quattro anni fa e gli ha dedicato un lavoro intenso e atipico (prove di tre mesi persino per i provini, training-tortura per il cast). Il suo gioioso rigore, il piacere del racconto leggero e profondo ha fatto il resto, per un'opera indimenticabile. Grazie alla sua regia, alle musiche e a un cast, è proprio il caso di dirlo, pazzesco: su tutti i pazienti, undici attori straordinari e sconosciuti. Qualcuno volò sul nido del cuculo, senza prendersi troppo sul serio, arriva in Italia grazie a un Claudio Bisio sindacalista che cerca di capire il mercato, un eretico ovunque sia, idealista ma mai ideologico che decide di applicare la legge Basaglia, la 180, a modo suo: i malati sono lavoratori (diventano artisti del parquet!), si guarisce riprendendo in mano la propria vita e buttando le medicine. Non tutto andrà bene, ma tutti cresceranno. Anita Caprioli è una dolce yuppie di sinistra, anello tra le follie dei normali e dei matti, Battiston un medico ribelle, Colangeli il suo "nemico", Bebo Storti un capitalista odioso. Un film splendido, in cui tutto è calibrato alla perfezione, l'opera più applaudita del Festival di Roma, da vedere. Subito. E poi dovete tornarci. Vi sembra una follia? Bravi, questo è lo spirito giusto.

   
         
       Marco Romani - Il Venerdì di Repubblica, 10 Ottobre 2008

   La storia è vera: una cooperativa di ex malati, lavorando il legno, è diventata ricercatissima sul mercato. Il parallelo è immediato: scusi, Bisio, quali sono le stranezze dell'Italia di oggi?
Chi ha fatto il matto per convenienza e chi un po' pazzo lo è davvero. E con gravi tendenze autodistruttive. Nella società come in politica, con tutti che fanno finta di niente mentre si annuncia la distruzione del Pianeta. «Ma quando provi a ricordarlo» dice Claudio Bisio «ti danno del verde noioso e petulante. E che porta anche un po' sfiga». In confronto, la piccola comunità di malati di mente protagonista del film Si può fare sembra quasi un consiglio di saggi. La pellicola di Giulio Manfredonia racconta la vicenda di Nello (interpretato da Bisio) che, cacciato dal sindacato perché troppo favorevole al mercato, viene spedito a dirigere una cooperativa di persone con gravi problemi psichici. Siamo agli inizi degli anni Ottanta, la legge 180 sul reinserimento sociale è stata da poco approvata. Nello decide che quelle persone non devono svolgere per forza lavoretti «socialmente inutili» e mette in piedi una vera ditta di parquet. All'inizio i risultati sono scarsi, ma quando si scopre che alcuni malati sono in grado di comporre dei puzzle bellissimi con le rimanenze del legno, la piccola azienda diventa richiestissima. «Quando ho letto la sceneggiatura» dice Bisio «avevo il timore che il film potesse andare un po' sopra le righe per troppa farsa o troppo realismo. Ma appena ho saputo che tutta la vicenda è realmente accaduta, compresi l'idea del montaggio dei pezzetti di legno e l'appalto per due fermate della metro di Parigi, ho deciso di accettare. Credo che anche agli spettatori qualche brividino questa storia lo farà venire». La vicenda è infatti quella della Cooperativa Noncello di Pordenone (anche se il film è ambientato a Milano) diretta da Rodolfo Giorgetti, che, partita con pochi soci-malati, oggi impiega circa trecento persone. «Quasi una multinazionale» dice Bisio.
A trent'anni dalla sua approvazione, la legge 180 è proprio da buttar via?
«La storia della Cooperativa di Noncello dimostra il contrario. Che è possibile reinserire i malati nella società e che queste aziende possono stare dentro il mercato. E dimostra anche che era giusto dare meno psicofarmaci, chiudere i manicomi e mandare in cantina i letti di contenzione. Oggi va di moda revisionare tutto. Ma questo no. La legge Basaglia è un punto fisso della storia sociale del nostro Paese e non si può tornare indietro».
Che effetto le ha fatto girare in un ex manicomio?
«Prima di iniziare le riprese, Giulio Manfredonia ha fatto due mesi di prove con gli attori che interpretano i matti al Santa Maria della Pietà di Roma. Quando sono arrivato per leggere il copione, mi sono trovato in mezzo a quelle stanze e circondato da gente talmente immersa nella parte che pensavo di essere finito su Scherzi a parte. C'era una ragazza che non smetteva mai di guardarmi negli occhi, uno che sbavava, uno che fumava una sigaretta dopo l'altra. Anche nelle pause continuavano a essere i loro personaggi. Solo alla fine delle riprese ho capito che erano tutti attori. Ma, santo cielo, hanno delle facce...».
In Doppio misto. Autobiografia di coppia non autorizzata (Feltrinelli) sua moglie Sandra Bonzi scrive che lei vacilla davanti a chi si occupa di psiche. Perché?
«Mi sento scannerizzato, denudato e radiografato. E a disagio. Ho anche avuto una fidanzata psicoanalista che la mattina mi metteva seduto sul letto e mi spiegava per filo e per segno cosa significavano i sogni che le raccontavo. Era come una seduta continua. Un incubo».
Tra disastri ambientali annunciati e buchi neri che potrebbero risucchiarci, come si può vivere tranquillamente?
«Siamo tutti matti da tempo. Facciamo stupidaggini ogni giorno. Ho amici, per esempio, che seguono diete macrobiotiche con una rigidità khomeinista e poi fumano sigarette spudoratamente cancerogene. Poi ci sono le pazzie collettive, frutto di piccoli atteggiamenti folli. Il buco dell'ozono è anche colpa dei deodoranti che ci siamo spruzzati per anni. Ci avviamo verso la catastrofe, ma con un buon profumo».
Anche i politici hanno le loro ossessioni. Roberto Maroni e i rom?
«Quella non è per niente follia, è solo calcolo politico. Questi signori hanno vinto le elezioni puntando sulle paure e sulle fobie della gente, sul timore del diverso, della violenza, della delinquenza».
Silvio Berlusconi e i giudici?
«Anche nel lodo Alfano non vedo alcun colpo di testa, è il frutto di una rigida razionalità. Hanno studiato a tavolino come risolvere i problemi del premier: io, un po' da poeta, credo nella follia come potenziale creativo. In Berlusconi, invece, vedo solo convenienza».
In prima serata, su Canale 5, è da poco partita la dodicesima edizione di Zelig. Il Cavaliere vi ha mai censurato?
«Mai. Noi siamo una produzione autonoma. A Cologno Monzese non metto piede da anni. Per me è fondamentale non dover varcare quella sbarra, con le guardie giurate e con quel clima dell'azienda. Siamo un corpo estraneo. E finché regge...».
La sinistra autodistruttiva, da Ferrero a Diliberto, un po' matta però lo sembra...
«Un po' di follia c'è. La tendenza all'autodistruzione è patologica».
Una tara genetica?
«Dai tempi in cui facevo politica ho sempre vissuto male il settarismo e il gruppettismo. Già negli anni Settanta, le divisioni fra trotzkisti e stalinisti mi parevano delle scemate. Io ero unitario quando parlare di unità era controcorrente. Dopo trent'anni è chiaro che avevo ragione io, ma mi pare che sono ancora da solo. La sinistra è colpita dalla
sindrome del minoritarismo e dalla paura di vincere. I perdenti sono sicuramente più simpatici, ma chissenefrega, io ho sempre pensato che è meglio vincere».
Bebo Storti, un suo caro amico fra i protagonisti di Si può fare, è consigliere regionale dei Comunisti italiani. Lei non ha mai pensato di candidarsi?
«Ho sempre detto la mia e non mi tiro indietro, ma presentarmi alle elezioni, mai. Me l'hanno chiesto per decenni, ma non sono in grado di occuparmi delle strade e delle fognature. Anche fare il rappresentante di classe nella scuola dei miei figli è stata una gran fatica. Un anno va bene, ma non di più. Per la politica ho però una proposta».
Quale?
«La rotazione. La politica è potere, sia per l'elettore che lo cede, sia per l'eletto che lo assume, con tutti gli annessi e connessi delle deformazioni, delle tangenti, del decisionismo e dei favoritismi a una soubrette amica. E soprattutto è una rogna. Non vorrei stare nei panni di Berlusconi e occuparmi del fallimento delle banche americane, di Alitalia, del latte cinese. Per il suo bene, dico: si faccia da parte e lasci il posto a un altro. Il problema però è che quella poltrona gli resta appiccicata e già questo è un sintomo del fatto che qualcosa non funziona. Non sarà pazzia, ma certo gli somiglia molto».

   
         
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